Sulle bocche eruttive dell'Enta e tra le doline e i carcari delle Madonie.

Le montagne siciliane. L'Etna! Pizzo Carborana, Pizzo Palermo, Pizzo della Principessa e Pizzo Cononnazzo nelle Madonie


La tentazione di staccare e di godersi il lungo ponte di fine Aprile era forte, è cresciuta ancora quando è affiorata l’idea della Sicilia, di quel ritorno inevitabile in una delle regioni più belle d’Italia. Abbiamo cominciato a buttare giù un programma, così per farsi venire l’appetito. Da una ipotesi all’altra, da una meta a quella successiva, tra cultura e svago, tra cibo e riposo (poco) abbiamo costruito un programma stretto e denso di appuntamenti, ci abbiamo messo dentro anche spazi per le montagne, non ci si pensa mai ma la Sicilia è anche montagna, insomma un po’ per sognare un po’ per vedere cosa poteva uscire fuori alla fine ci siamo imbarcati, nel vero senso del termine. Una programmazione eccellente, in questo Marina è imbattibile, ha disposto tempi, spostamenti e alloggi, le carte delle montagne siciliane ci sono state fornite da amici montanari, qualche informazione rubata sul web d eravamo pronti. Teatri e templi greci, paesi che ci avrebbero catapultato nelle scene del Gattopardo, mosaici di ville dell’antica Roma, scappatelle al mare e cibo, tanto cibo, ben due tappe erano dedicate alle montagne della Sicilia, “iddu” il vulcano, sua eccellenza l’Etna e le Madonie, quel piccolo gruppo montuoso in provincia di Palermo tanto famoso per alcuni endemismi naturalistici, che non raggiungono i 2000 mt per una manciata di metri; pronti, partenza e via!! Sbarcati dal traghetto arriviamo subito a Taormina, l’antico teatro greco ci attende; la magnificenza di questo complesso ha una quinta stupenda a dire poco, forse unica; dal golfo di un mare azzurrissimo sale fin sulla vetta dell’Etna che si erge ancora imbiancato di neve con tutta la sua mole e vastità. L’Etna domina la cittadina e il teatro greco, catalizza l’attenzione e la testa inevitabilmente vola già lassù, lo raggiungeremo solo domani, prima ci prendiamo una mezza giornata di turismo. Dormiamo tra Acitrezza e Acireale, ovvio troviamo il modo fugace e il tempo per visitare di corsa entrambe le cittadine e quello per perderci nei gusti dello street food siciliano e in quello più delicato e strutturato di un ristorante al centro di Acireale; ma eravamo già al domani, col cuore e con la testa, l’eccitazione per poterci affacciare a 3300mt dentro le bocche del vulcano è stata forte in noi per tutto il giorno. L’ appuntamento alla base di partenza delle escursioni del rifugio Sapienza su versante Sud di Nicolosi era per le 9 del mattino; si può salire solo accompagnati per cui avevamo preparato tutto da casa con una serie di telefonate ad alcuni gruppi che organizzano le escursioni. La prima telefonata, evito di citare il nome del gruppo escursionistico, prometteva una salita ai crateri di quota 2900 e l’affaccio alla valle del Bove, salire oltre era vietato anche con le guide ci hanno detto, i costi della salita tra mezzi e accompagno era di una esosità fuori dall’ordinario, ero depresso e disilluso, un pezzo del programma era già in frantumi; una seconda telefonata, Marina per fortuna ha insistito, ha ribaltato la situazione; con la metà della cifra il gruppo guide alpine Etna Sud ci avrebbero accompagnato fino ai 3300 mt dei crateri sommitali, ovviamente in gruppo, ma era il davvero il minimo cui sottostare vista la possibilità di non poterci arrivare.


L'Etna


Con largo anticipo siamo al rifugio Sapienza, a quota 1910 mt, quelle che dalla pianura erano condizioni di variabilità diffuse, quassù a questa quota sono condizioni di variabilità spinte, nuvole grigie compatte e vento freddo fanno temere l’evolversi dei programmi; delle guide sono salite in perlustrazione, prima di formare il gruppo si attende il loro responso, non promette bene. Passa il tempo, arrivano i clienti, ancora non abbiamo il nulla osta, vogliono scongiurare la possibilità che si scatenino temporali in quota. Poi arriva l’OK ma siamo avvisati, al primo tuono si torna indietro e addio oltre tutto anche alle quote versate. Nessuno si ritira tanta è la voglia di salire ma il rischio che si fallisca è tangibile; il motivo ce lo hanno spiegato, tante volte hanno rischiato in condizioni meno variabili, il vulcano è molto alto, le condizioni meteo possono cambiare repentinamente, oggi erano già di spiccata variabilità, in caso di temporali il rischio è elevato, data la consistenza ferrosa dei materiali piroclastici di cui è composta la crosta in caso di temporale ogni scarica elettrica diventa un fulmine che arriva a terra. Come insistere e fare obiezione? Partiamo, con la funivia saliamo a quota 2500 mt, dove ci aspettano dei piccoli pulmini che ci portano fino a quota 2900. Finalmente camminiamo, con i piedi tra i lapilli, subito tra la neve a dire il vero, che già a questa quota è molto diffusa. In fila come scolaretti, la guida davanti, le nuvole basse e grigie, la luce del sole non filtra gran che, la montagna è enorme, informe, scura, solo la neve la definisce, non c’è traccia di vegetazione ovviamente. La salita dura poco, i 400 mt di dislivello li copriamo in un paio d’ore, c’era da aspettarselo, visto come si formano i gruppi l’escursione ha carattere turistico; intorno solo un colore e solo una consistenza, distese di lapilli e qualche roccia basaltica, la guida si prodiga in spiegazioni, qualcuna la facciamo nostra ma eravamo troppo tesi ad arrivare in cima per sporgerci dentro le bocche principali per trattenerle tutte. Fin qui sono stati lunghi traversi con pendenze costanti e leggere, la guida ha saputo scegliere le traiettorie per tutti, più che una escursione a 3000 mt mi sembrava una scampagnata su terra bruciata e vetrosa. Sono stati i panorami insoliti che avevamo intorno a catturare la nostra attenzione, il vulcano non è una montagna, è indecifrabile ciò che si prova a starci sopra, sa di incognito, di forza della natura, di potenza imprevedibile, di vita persino, si perché dalle descrizioni della guida capiamo che è una struttura che evolve rapidamente, muta, distrugge e crea, cresce in pochi giorni. Mentre siamo su un traverso che attenua la pendenza ci viene intimato di mettere il caschetto, ci siamo, il terreno si appiattisce, diventa sabbioso e giallo di zolfo siamo sull’orlo dei crateri centrali. Veniamo investiti da zaffate solforose, la nebbia si mischia ai fumi che si sprigionano dalla terra e alle nuvole che vengono trasportate dal vento, la gola a tratti prende a bruciare, tossiamo. E’ freddo siamo oltre i 3300 mt. ma manco lo sentiamo, lo spettacolo è unico e nuovo, la bocca del cratere centrale è enorme, tra i fumi e le nuvole che corrono veloci si percepiscono appena file di turisti sui vari lati della circonferenza sommitale, dentro le caldare tra sfasciumi di pietre e informi enormi voragini, vengono sputate all’esterno enormi quantità di fumi e di vapori acquei, tutto si legge con difficoltà, sono le due bocche centrali. Alcuni tratti delle pareti delle caldare sono gialle, ricche di zolfo, altre sono rossastre, ricche di ferro ci viene raccontato, trasudano vapori e fumi, spariscono alla vista inghiottite dalle nebbie e poi d’un tratto riappaiono, se dovessi pensare alla bocca dell’inferno dantesco scommetterei che sarebbe una cosa del genere. Lo spettacolo è davvero unico, affascinante, emotivamente potente, incomprensibile alla ragione ed entusiasmante; la neve è sparita da molto nonostante l’altezza, la guida ci spiega che dove la terra trasuda vapori e nei tratti dove le colate sono recenti non resiste per via del calore che si trova pochi centimetri sotto il suolo. Intorno ai crateri la terra è gialla, ricca di zolfo, in alcuni momenti ci sembra di aver masticato le teste dei fiammiferi, siamo storditi dal gas e da tanta straordinaria potenza della natura. Compiamo un mezzo giro della caldara e pieghiamo verso la bocca nuova, una terza bocca del vulcano, un po’ più basso delle bocche centrali, anche questa attiva e più pericolosa perché l’ultima ad aver creato un po’ di casini; non ci saliamo ovviamente, scendiamo alle sue falde, su questa montagna le regole dei ghiaioni non esistono, sono friabili e formati dai lapilli delle fontane eruttive, il versante è ripido gli scarponi affondano, in pochi, i soli che hanno già esperienze di montagna ci buttiamo veloci di corsa, e ci si mette davvero poco per rientrare sotto i 3000 mt di quota. I lapilli sono pietreuzze di piccolo diametro, da pochi centimetri a dimensioni del granello di sabbia, vetrose e ruvide sono estremamente abrasive; le corse veloci verso il basso ci costeranno le suole degli scarponi e non solo, i lapilli riescono ad entrare negli scarponi ed è come avere un chiodo che ti trafigge, siamo costretti a qualche sosta per toglierli. Di nuovo sulla neve traversiamo verso le due bocche eruttive del 2001, ormai spente e innocue, le raggiungiamo ci giriamo sopra ed in mezzo, sono di un rosso ruggine spettacolare, niente fumi, solo lapilli e blocchi di roccia basaltica, un libro per chi sa leggere di geologia. L’andatura è stata lenta, non c’è tempo per una deviazione per affacciarsi sulla valle del Bove, raggiungiamo a piedi il rifugio d’arrivo della funivia mentre la guida continua ad ammaliarci con informazioni sul vulcano, una su tutte che vale la pena citare: l’norme valle del Bove non è altro che ciò che rimane della caldera del Trifoglietto, sempre lui, l’Etna di 8000 anni fa, quando raggiungeva quasi i 4000 mt di quota, quando era un vulcano esplosivo, pericoloso, non come ora, basaltico ( un vulcano basaltico emette lava più o meno fluida che scivola sul pendio, un vulcano eruttivo, tipo il Vesuvio esplode e spinge il magna in forma di cenere e lapilli a quote altissime sparpagliandole sul territorio circostante); Il Trifoglietto è esploso e alla fine imploso su se stesso, la valle del Bove è ciò che rimane, anzi è ciò che rimane di una enorme successiva frana che arrivò fino al mare, che provocò uno tsunami violentissimo e devastante fino alle coste della Grecia e del Medio Oriente. Oggi il Mongibello, il nome antico dell’Etna, è un vulcano “buono” per fortuna, basaltico. Di bocche eruttive se ne contano più di 300 sul territorio tra antiche e recenti, solo 4 sono quelle attive e tutte sommitali ma di tanto in tanto se ne aprono di nuove. L’Etna, Iddu è “buono” perché è relativamente poco pericoloso, contrariamente a quello che si pensa non sono le bocche ad eruttare magma, dalle bocche vengono espulsi lapilli e le famose bombe, piccole pietre basaltiche, il magma, quando si forma, esce dalla base delle bocche e generalmente non scorre per più di una decina di chilometri, è da tempi remoti che si aprono le bocche a quote molto alte, i paesi intorno alla montagna posso stare tranquilli. Un mare di altre informazioni e curiosità ci sono state regalate, queste e altre si possono reperire facilmente sul web, ma essere lì, sentirsele raccontare mentre ci sei sopra e ti guardi intorno non ha davvero prezzo. La discesa è stata solo una nostalgica conclusione di una giornata incredibile, abbiamo vissuto la forza della natura e fa niente se tutto è estremamente funzionale al turismo, non si può venire in Sicilia senza salire su questo monumento naturale.


Un po’ di turismo e di Sicilia vera, gli stupendi mosaici della villa romana di Piazza Armerina, Caltagirone, la Valle dei Templi e siamo pronti per la seconda montagna siciliana, la prima per i puristi che non vogliono annoverare un vulcano tra le montagne. Dai 3330 mt dell’Etna proveremo a raggiungere i 1979 mt di Pizzo Carbonara sul gruppo delle Madonie in provincia di Palermo. Queste insieme ai contigui e più bassi Nebrodi e ai Perolitani in provincia di Messina formano la così detta dorsale dell'appennino siculo che si sviluppa nella fascia costiera Nord della Sicilia. Fondamentalmente le Madonie sono costituite da un altopiano carsico intorno cui si sviluppano una manciata di montagne; se escludiamo l’Etna sono le più alte dell’isola, per pochi di metri non raggiungono quota 2000. Le Madonie per la loro posizione, sono un balcone incredibile sulla Sicilia, nelle giornate chiare fino all’Etna, offrono un colpo d’occhio stupendo sul tirreno e sulle coste fino a Palermo e fino alle Eolie quando l’aria è tersa; per la loro natura carsica non sono montagne che colpiscono particolarmente la fantasia, le quote più alte sono un insieme di rotondità rocciose e doline, dalla vegetazione bassa, prevalentemente boschi di faggi e lecci nelle vallate protette dai venti; sono invece molto interessanti le quote più basse del gruppo e le tante valli ricche di sorgenti che sono anche ricche di endemismi straordinari tra cui spiccano gli ultimi esemplari di Abies nebrodensis, una sottospecie dell’Abete bianco, soli 30 esemplari che resistono tra il Vallone Madonna degli Angeli e il monte Scalone nella zona Nord del gruppo ed una infinità di fiori tra cui spiccano e solo per esempio la Ginestra Cumpani, l'Astragolo dei Nebrodi, e la Viola dei Nebrodi.


Le Madonie


Dalle vicinanze di Polizzi Generosa dove alloggiavamo è stato facile imboccare la tortuosa strada provinciale 119 che sale a Piano Battaglia, per la cronaca è proprio intorno a quota 1000, su uno dei tanti tornanti di questa strada, che parte il sentiero per il Vallone di Madonna degli Angeli dove si possono ammirare i superstiti Abeti nebrodensis che ho citato sopra; i nostri progetti prevedevano altro, non ci siamo fermati, l’esiguo tempo per questa tappa siciliana ci ha fatto preferire un giro in quota. Piano Battaglia è una splendida spianata verdeggiante, una enorme dolina a quota 1500 mt contornata di tonde montagne e boschi di lecci e faggi, rifugi sparpagliati, un minuscolo impianto di risalita per delle corte piste da sci, ed una strada che con un senso unico gli gira praticamente attorno. E’ prima di un secco tornante, in una piazzola di sosta che parte il sentiero verso le cime più alte, è molto evidente, accanto su una piccola tettoia in legno è riportata la mappa del territorio e del sentiero. Entriamo subito in un piccolo bosco di faggi, ne usciamo subito e continuiamo traversando, prima di incontrare altra vegetazione si sale circa duecento metri di dislivello tra sentieri rocciosi e con i primi affacci sul Tirreno e sulla costa che scivola via fino a Palermo. Alcuni tratti si alzano repentini con svariati brevi tornanti, servono a prendere quota e ad addentrarsi all’interno della montagna dove iniziano a delinearsi le prime doline tipiche di questo altopiano, si susseguono una all’altra, sono contornate da creste aspre e rocciose, alcune le saliamo per sporgerci alla ricerca di panorami sul mare ma oggi non siamo fortunati, foschia e nuvole in distanza non danno scampo. Il sentiero è ben delineato, cerchiamo di studiarlo sulla carta 1:50000 che amici ci hanno prestato e non di seguirlo solamente, abituati a carte più dettagliate le linee dei sentieri sembrano più dei suggerimenti che una pista da seguire, ma tanto basta. Attraversiamo boschi più fitti intorno a quota 1800, impediscono di vedere i contorni principali delle montagne che dobbiamo salire, eravamo convinti che oltre il bosco ci fossero state le nostre cime e la sensazione è quella che gli stiamo girando attorno. Aggiriamo doline più o meno grandi, intorno continuiamo ad avere rotonde creste e qualche piccola elevazione, salendo lentamente senza grossi strappi entriamo e usciamo da boscaglie basse fin tanto che serpeggiando in mezzo ad un mare di pietre il sentiero sbuca su una vasta rotondità con una evidente palina alla sua cima. E’ la nostra meta, Pizzo Carbonara, la cima più alta delle Madonie con i suoi 1979 mt. Usciamo dal sentiero principale per un breve tratto e puntiamo direttamente la vetta, la palina è conficcata in un grosso omino, di certo le pietre da queste parti non mancano. La foschia non permette di allungare lo sguardo come avremmo voluto, gli orizzonti sono limitati alle vette intorno e ai cumuli nuvolosi che verso est stanno salendo dal mare minacciosi. Pizzo Carbonara è una delle svariate vette che fanno da contorno alla piana che scende, nemmeno troppo profonda oltre il crinale, Piano della Principessa, arida dalla rada e bassa boscaglia; intorno a questa piana si concentrerà la nostra escursione, sulle vette che si ergono tutto attorno. Prendiamo verso Nord un crinale roccioso che si avvalla per meno di cento metri a formare una ampia sella, risale un chilometro circa più in là, forse qualcosa meno a formare Pizzo Palermo, di quindici metri più bassa di Pizzo Carbonara; un “caprone” ostile e nervoso ci controlla poco lontano, non sembra gradire la nostra presenza. Col senno del poi avremmo potuto scendere dentro il Piano della Principessa invece siamo ritornati sui passi fino a ripassare su Pizzo Carbonara, da dove abbiamo continuato per cercare di chiudere l’anello verso Piano Battaglia, almeno così i sentieri tracciati sulla carta suggerivano. Una decisione presa sul momento ci ha portato a raggiungere l’altra cima che era sul versante opposto del Piano della Principessa, per cui uscendo dal sentiero ci siamo arrampicati su una cresta rocciosa che chiudeva il piano stesso ma che nascondeva anche una sella poco pronunciata; scesi e risaliti siamo arrivati su Pizzo della Principessa, chissà per quale motivo chiamata anche Pizzo Antenna, di soli 2 mt più bassa di Pizzo Carborara. Circa cento i metri di dislivello per intercettare il sentiero che scorreva a valle per riprendere il percorso previsto, da li continuando sulla sinistra avremmo raggiunto Piano Battaglia che si trovava oltre la dorsale che avevamo di fronte in direzione Sud e sulla strada avremmo chiuso l’anello. Il territorio parla se lo sai leggere, le Madonie in alto sono molto semplici, oltre la dorsale spuntava la cima di mt. Spina, per intenderci dove arrivavano gli impianti di risalita di Piano Battaglia, continuando la linea della dorsale scorgevo una sagoma di una costruzione e un po’ più in là un piccolo nevaio incastrato sotto una rocciosa dorsale. A ben guardarli ricordavano una sagoma vista la mattina, che abbiamo lasciato sulle destra ed il nevaio che abbiamo dovuto superare, insomma viaggiando a vista, scorrendo lungo la dorsale che avevamo di fronte potevamo chiudere l’anello e ritrovarci bel belli a scendere al punto di partenza. Ed è stata la decisione più bella della giornata, la cresta, estremamente rocciosa, senza sentiero ma facile da percorrere è stata molto divertente ed appagante, e molto panoramica; da una parte, verso Nord riuscivamo a scorgere l’intero giro fino a quel momento percorso, dalla parte opposta la distesa verde di Piano Battaglia, insomma ci sentivamo al centro dell’universo Madonie. Non solo, scorrendo sulla cresta, tra piccole selle e delle doline che si aprivano sulla destra è stato bello avvistare piccoli gruppi di cervi, quasi dei bambi, a dire il vero li avevamo scorsi in diversi momenti durante la giornata ma da queste parti sono di uno schivo pazzesco, non fai in tempo a realizzare di averli visti che sono già spariti; stavolta, forse perché eravamo contro vento, abbiamo avuto qualche attimo in più e sono riuscito a fotografarli, piccoli, in fuga e lontani ma sono riuscito a coglierli . La cresta si è snodata di poco sopra il 1900 mt, culmina con Pizzo Colonnazzo 1903 mt. e scende verso il vecchio e diruto rifugio CAI, dove un arrugginito cartello ricorda antichi fasti in cui si usava oltre che come rifugio anche come base per la scuola di sci. Chiuso l’anello sulle cime più alte delle Madonie non rimaneva che scendere per il sentiero dell’andata, meno di un’ora di discesa veloce, il tempo necessario a che le nuvole rompessero gli indugi a dalla valle si alzassero in una densa coltre nebbiosa che ben presto si è trasformata in nuvolaglia spessa e minacciosa. Missione compiuta, un percorso sopra e intorno alle vette più alte delle Madonie; non basta certo a dire di conoscere il massiccio, anche perché come abbiamo detto le sue peculiarità sono alle quote intermedie dentro le frequenti valli che la solcano, ma come primo approccio non è stato davvero male.